Il paradosso della testimonianza
Dopo il terremoto in Afghanistan, abbiamo inviato aiuti salvando centinaia di vite. Abbiamo documenti, prove, foto. E non possiamo mostrare nulla: pubblicare i dettagli significherebbe condannare a morte chi ha reso possibile quegli interventi. Il dilemma della comunicazione umanitaria sotto i regimi che perseguitano chi aiuta.
Il 31 agosto 2025 un terremoto ha devastato la provincia afghana di Kunar. Oltre duemila morti, migliaia di feriti, villaggi interi ridotti a macerie. I soccorritori si sono rifiutati di curare le donne, a causa delle leggi discriminatorie imposte dal regime talebano.
Grazie alla collaborazione con l'Associazione Gruppi "Insieme si può..." e RAWA – l'Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane – insieme abbiamo inviato 10.000 euro per assistenza medica, medicinali e logistica. Un team sanitario mobile ha raggiunto villaggi isolati, curando donne e bambini che non avevano mai avuto accesso a cure. "Mai nella nostra storia un team che includeva donne è venuto qui", hanno detto gli abitanti.
Abbiamo le prove di tutto questo. Fotografie nitide, nomi completi, coordinate GPS. Report dettagliati che documentano ogni intervento, ogni villaggio, ogni vita salvata. Materiale che renderebbe il nostro lavoro trasparente, verificabile, inattaccabile.
E non possiamo mostrare nulla.
Ogni documento che riceviamo porta con sé un'ombra: quella di chi lo ha scritto, di chi ha scattato quella foto. Persone che vivono cambiando nome ogni settimana, che si spostano di notte tra case sicure, che sanno di essere braccate. Per loro, finire in un report pubblico significa finire in una lista. Quella che il regime talebano aggiorna quotidianamente con nomi di donne da far sparire.
Il paradosso è questo: più documentazione abbiamo, meno possiamo condividerla. La trasparenza che dovrebbe legittimare il nostro lavoro diventa un'arma contro chi lo rende possibile.
Viviamo in un'epoca ossessionata dalla verificabilità immediata. "Pics or it didn't happen", dice internet con la sicurezza di chi non ha mai dovuto nascondersi. Ma cosa succede quando mostrare le prove significa condannare chi le ha raccolte?
C'è chi ci chiede: perché non pubblicate i nomi? Perché non mostrate i villaggi? Perché non date coordinate esatte, volti riconoscibili? La risposta è semplice e terribile: perché quelle operatrici devono poter continuare a operare. Perché quei villaggi non devono diventare obiettivi. Perché quei volti devono restare anonimi per restare vivi.
Non è mancanza di fiducia o opacità voluta. È calcolo di sopravvivenza. Ogni iniziale al posto di un nome è una donna che può tornare a casa. Ogni "provincia settentrionale" invece di "distretto di X" è un luogo che resta accessibile. Ogni fotografia non pubblicata è un'identità protetta.
Non chiediamo di crederci sulla parola. Chiediamo di capire che alcune testimonianze sopravvivono solo nell'ombra. Che proteggere chi aiuta è parte dell'aiuto stesso. Che la vera accountability non è verso i follower sui social media, ma verso le donne che rischiano tutto per fare ciò che lo Stato rifiuta.
Il dilemma è questo: tacere significa condannare queste donne all'invisibilità, parlare può condannarle a morte. Tra questi estremi, navighiamo ogni giorno. Diciamo abbastanza per far arrivare i fondi necessari, per mantenere viva l'attenzione, per non lasciare che l'Afghanistan sparisca dai radar del mondo. Taciamo abbastanza per non trasformare ogni post in un bersaglio.
I report esistono. Sono dettagliati, completi, verificabili. Sono nei nostri archivi, consultabili da chi finanzia i progetti. L'Associazione Gruppi "Insieme si può..." li ha ricevuti, li custodisce. Rispettano tutti i protocolli di rendicontazione. Ma non saranno mai pubblici. Perché alcune vite valgono più di qualsiasi like o certificazione di trasparenza. Perché la prova migliore che un intervento ha funzionato è che chi lo ha realizzato è ancora vivo per farne un altro.
Questo è il prezzo della testimonianza sotto un regime che punisce chi cura, che perseguita chi insegna, che caccia chi aiuta. Un prezzo fatto di silenzio necessario, di dettagli omessi, di storie raccontate a metà.
E lo paghiamo volentieri. Perché l'alternativa sarebbe raccontare tutto una volta sola, e poi non avere più nessuno da cui ricevere notizie.